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Ghitta Carell

Nata nel 1899, ungherese, ebrea, arriva a Roma nel 1928 dove diventa immediatamente la fotografa del bel mondo: Ghitta Carell, un personaggio controverso.
Ritratto di Ghitta Carell

Forse era di modeste origini - così fosse, fu splendida a farne perdere le tracce.


Ghitta Carell non si chiamava Carell, in realtà.


Figlia di un Ignazio Klein e di una Lotti Sonnenberg, cambiò il suo cognome quando giunse in Italia, dopo avere frequentato sicuramente un corso di fotografia a Budapest e, un po' meno sicuramente, nel senso che c'è chi ne dubita, a Lipsia e a Vienna.


C'è chi dice che il cognome lo scelse prendendo ispirazione dal nome di un paesino vicino a quello di nascita, e che lo fece per dare un "sentore" di nobiltà ai propri natali; altri pensano che si trattò di assestare un colpo alla sua rivale, Eva Barrett, fotografa inglese nonché ritrattista consolidata.


Difficile capire la verità, e d'altronde, con lei, bisogna farci l'abitudine: Ghitta era una maga proprio in questo: confondere la realtà e l'immagine fino a creare un'entità terza, non reale e non immaginaria, capace di una vita quasi propria.


Ma andiamo con ordine.


Dunque Ghitta lascia patria e vicinanze, e arriva a Firenze. E' il 1924, lei ha venticinque anni.


Scrive, Natalia Aspesi in un articolo talmente stupendo che non si può proprio ridurrre la citazione, che a Firenze Ghitta era arrivata


"come turista, e si era invece fermata, affascinata dalla città (...) i primi anni, a Firenze, aveva vissuto come una hippy ante litteram: senza una lira, mangiando orrende minestre di farina e kummel, portando vestiti confezionati da lei che, come ricordava Camilla Cederna in un suo articolo, non sapeva tenere l’ago in mano. In anni in cui le donne portavano gonne corte al ginocchio e tacchi alti, Ghitta, per povertà, si vestiva come un’eroina di D. H. Lawrence, come la June di Henry Miller: gonne lunghe e svolazzanti, sandali piatti, giubbetti alla russa di taffetà rosso o azzurro".


Per ambientarsi nonostante la povertà, Carell comincia a frequentare le altre e gli altri ungheresi, che ci riuniscono, a loro volta, in una specie di cenacolo mitteleuropeo, a Fiesole: tra loro scultori, storiche d'arte, musicisti.


Due anni dopo, eccola a Milano.

Dove avverrà l'evento che darà il via alla sua fantastica carriera di fotografa ritrattista.


Per caso - dirà lei - incontra un bimbetto. Ha gli occhi azzurri, i capelli neri, ed è vestito da balilla.


Ghitta lo fotografa, poi evidentemente rende pubblica la foto - sulla cui casualità è lecito nutrire dubbi perché il bimbetto era in realtà il figlio della padrona della pensioncina dove Ghitta abitava - e la foto viene scelta per fare propaganda al regime: tutta Italia ne sarà tappezzata.


Così, da Milano, si sposta a Roma.


I tempi della pensioncina sembrano finiti, e lo sono in realtà, come non finita ma, almeno, sospesa è l'epoca della povertà, per lei.


Prende studio in via Oriani, poi a Piazza del Popolo, poi, poco distante, alla via G.B. Vico.


La rete di contatti intessuta a Firenze comincia a dare i suoi frutti: Sofia di Grecia, sovrana in esilio che Ghitta aveva conosciuto a Firenze, la presenta alla famiglia reale, e il gioco è fatto.



Ben presto, possedere uno dei (cari: costavano 2.000 lire, circa 3.000 euro di oggi) ritratti di Ghitta Carell diventa un must, uno status symbol, irrinunciabile: la sua segretaria Elena Canino scriverà che Ghitta annotava tutto su un taccuino come un messale, fitto di appuntamenti con tutto il bel mondo romano.


Mussolini, certo; Edda sua figlia. Ma anche duchesse, marchesi, gerarchi e professionisti con le loro mogli.


Insomma tutto

il bel mondo dei "telefoni bianchi", lo schermo dorato con cui in quell'epoca ci si distraeva dagli affanni dei poveri mortali - un po' come ora con le sfide sui social, e quarant'anni fa' con le veline in TV (ma forse questo è politicamente inopportuno dirlo?).


Il bel mondo non era fatto solo di politici, però: Ghitta Carell non solo: ritrasse anche Alberto Savinio, e Giovanni Papini, e Alba De Céspedes...



Tecnicamente (io non entro troppo in materia, lo farà chi di fotografia si intende davvero e professionalmente) i suoi sono ritratti che affondano le loro radici nel Pittorealismo, o Pittorialismo: "termine usato (talora con connotazione negativa) per indicare la tendenza di molti fotografi dell’Ottocento a imitare canoni estetici propri della pittura al fine di conferire dignità artistica alle proprie opere", dice la Treccani.


ragazze ghitta carell
"Ragazze a Capri". Immagine: MFLA

E come i pittorealisti producevano immagini sgranate e manipolate fino a farle sembrare incisioni, o acquerelli, così Ghitta Carell ritoccava i suoi ritratti fino a soddisfarne il soggetto: che voleva risultare bello - o bella - anche quando di bellezza non ce ne era neppure l'ombra, come dirà lei stessa in una intervista.


Un aggeggetto tagliente per modificare il negativo, e tanta puntigliosità: si dice che abbia passato due notti in bianco per riuscire cancellare - dal negativo - le lentiggini da un volto che, diversamente, sarebbe parso meno bello...


Certo tutto questo suona in maniera orribile alle nostre orecchie (sperabilmente) abituate a rifiutare il bodyshaming in tutte le sue forme.

Ma negli anni 20 del 1900 le idee che faticosamente cerchiamo oggi di fare nostre non giravano neppure per le anticamere dei cervelli allora coinvolti, e, alla fine, forse si può dire che Ghitta Carell faceva quel che, per secoli, hanno fatto i pittori di corte.


Non brutta, non bella; un po' virileggiante, sempre elegante con sobrietà, lo sguardo severo e l'accento ungherese sottolineato per voluttà di esotismo, determinatissima ed imbattibile se si trattava di difendere il suo lavoro

(quando nel 1933 Arnoldo Mondadori acquista i ritratti di Mussolini e li pubblica senza rispettare la richiesta della fotografa di visionare le prove di stampa, lei rifiuta il compenso e lo querela)

Ghitta Carell ricompare dopo la guerra e ancora fotografa persone che raramente sono uomini donne bambine e bambini "di tutti i giorni": Palma Bucarelli, Alcide De Gasperi, Giulio Andreaotti ... e Valentina Cortese, e Walt Disney, e Ruggero Orlando, per dirne solo qualcuno.


Resterà in Italia, cittadina italiana dal 1959, fino al 1969. Poi si trasferirà ad Haifa, da sua sorella, e lì morirà, nel 1972, in completa indigenza - sembra perché aveva speso tutti i suoi denari per far raggiungere Israele da amici e parenti.


Una vita con l'avventura che scorre sotto la superficie apparentemente tranquilla come un fiume carsico, una indubbia capacità tecnica ed anche una visione personale.


Ma, come dice Duilio Roberto che nel 2013 curò una mostra di sue immagini al ex Pastificio Cerere, su di lei si legge di tutto e di più. E, principalmente, male.





Anche in tempi ben successivi alla sua morte, su di lei pesa infatti la sua "ingenua complicità"- come la definisce Susan Sontag - con il fascismo.


E così, a fronte delle parole, raccolte da Barbara Martusciello, in funzione rispettosamente protettiva e certo "recuperativa" di Diego Mormorio,

Michele Smargiassi in un articolo apparso su Repubblica il 9 settembre 2013 ribatte:

Carell "mise il contributo dell'"altezza della sua arte" al servizio di un interesse di classe, edificando per essa un'immagine che potesse essere accettabile al milieu internazionale, e gratificante anche per chi (per primo, forse, gli stessi personaggi raffigurati) se la rideva della pantomina dell'Impero tornato sui colli fatali di Roma, considerandola solo roba buona per pasturare il popolo bue delle adunate oceaniche".


Eppure, ancora Aspesi riflette: "Negli anni Trenta la realtà era stata bandita dall’immagine. Nulla doveva rappresentare la vita vera; né il cinema che puntava su film in costume o eroici o con melense storielle d’amore; e non rappresentava la vita tutta la iconografia fascista, portata al gigantesco, all’epico, al propagandistico. Non rappresentava la realtà neppure l’arte di Ghitta Carell ma non per calcolo, non per opportunismo, e non per la necessità demagogica di intontire gli ingenui e incanalare le masse. Il suo era un modo di cercare dietro alle facce, di dare a quelle facce il gusto del bello, dell’aristocratico, del cerebrale, del sublime: un elemento questo, che apparteneva a una cultura completamente estranea a quella fascista".


Una cercatrice d'anime così appassionata da trovare l'anima anche in chi non ce l'ha? sostenerlo sarebbe certo esagerato.


Ma la storia di Ghitta Carell è così evidentemente parte di quel tempo che non amiamo, eppure c'è stato ed ha coinvolto moltissime italiane e moltissimi italiani, che forse le sue immagini ed alla sua inespressa quanto caparbia voglia di riscatto possono aiutare a capire qualcosa di più, della vita che vogliamo e di quella che non vogliamo.

Ghitta Carell
Ghitta Carell











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